Treno Cavallo e Tram – III / Cairo Montenotte. 180. (seconda parte)

Alla sera facevi cena, poi andavi a dormire e ti chiudevano dentro fino al mattino. E di notte venivano a mezzanotte e alle quattro a batter le inferriate con dei pezzi di ferro per vedere se ce n’era qualcuna segata o limata. Loro lo sentivano dal rumore. Pensa, due volte per notte. Ce n’erano tanti che volevano scappare, e tanti erano anche scappati, ma mica limando, perché ti ci vuole una settimana. Saltavano il muro – e dire che il muro era alto sei metri – e andavano giù. Ma scappavano di giorno, perché la sera, la notte, eri chiuso lì dentro. E invece tutti in cortile e allora cosa facevano: erano già d’accordo prima, uno montava sulla spalla all’altro, l’altro su ancora e andavano su così: altro che il Circo Orfei… Una volta ho provato a scappare. Ho provato… c’era da fare quello e quello e ci ho pensato bene: Andate, vi saluto. No no, non sono scappato. Tra me e me: E quando vado a casa, dove vado? Almeno qui mangio.

Se ci si comportava bene durante la settimana allora la domenica si poteva andare a passeggio. Si usciva in venticinque, trenta, non di più. Sei guardie: due davanti, due in mezzo e due dietro. Ti facevano fare un giro a Cairo Montenotte, così, piano, delle volte si andava fino vicino a San Giuseppe e poi si tornava indietro. E intanto noi ci mettevamo d’accordo già prima: tutte le cicche che trovavamo per la strada erano nostre; ci si dava il cambio, che se l’agente se ne accorgeva che raccoglievi le cicche veniva lì, ti frugava, poi le buttava via tutte. Così poi si veniva dentro e si aspettava il momento buono – quando ci portavano in cortile -, allora ci mettevamo d’accordo e andavamo a fumare al gabinetto. (Per cartine adopravo pezzi di giornale. Spezzavo un pezzo di giornale, prendevo una cicca, due, tre: si faceva una bella sigaretta! E poi prendevo l’acciarino, perché non avevo i fiammiferi. Prendevo un pezzettino di tubo lungo così, rotondo, mettevo dentro dello straccio bruciato – che tutti si bruciava stracci quando lavoravamo -, poi avevo un bottone di madreperla, gli mettevo due fili, tenevo uno al dito uno in bocca, tiravo due o tre volte, finché non cominciava a girare. Gira gira con quello davo colpi, il bottone batteva contro il bordo della latta, faceva scintille. Finché qualche scintilla entrava dentro l’acciarino, soffiavo, s’allargava e finalmente potevo fumare la mia sigaretta speciale.) Eravamo in due, in tre, in quattro a fumarla, non di più. Poi ci regolavamo, non che uno fumasse di meno e l’altro di più. Allora fumavo un pezzo così, la mettevo lì, entrava quell’altro, io fuori di guardia, quando fischiavo voleva dire che c’era la guardia, allora lui prendeva, buttava lì e tirava l’acqua – nessuno vedeva.

Un anno siamo andati a Savona a fare il Decimo Campo Dux. Allora c’era il Duce, no? Era in uno stadio: noi, quelli di Savona, quelli di Genova… Ci dovevano far fare la ginnastica – lì non prendevano quelli un po’ molli, prendevano quelli più in forma – e così eravamo andati in quaranta a Savona al Decimo Campo Dux. Lì era venuto il Duce, c’era il Duce lì sopra. Ci hanno fatto fare ginnastica e camminare col passo romano. Un giro tutto intorno allo stadio, saremmo stati anche un 500, col vestito da avanguardista, con la camicia nera. Caro mio, ero ben tappato. Poi prendemmo il treno da Savona a Cairo Montenotte, togliemmo subito il vestito da avanguardista e mi misi il mio bel numero 180 sulla schiena. Un numero che non dimenticherò mai.

Avevo trovato un topo nel cortile. Va a sapere come. Un topo piccolo era uscito da un buchetto dai muri lo portai su con me in cella. La mia mobilia era la branda, che la alzavi e la mettevi contro il muro, un comodino, il vaso da notte. Tutto lì. E allora perché non andasse via lo mettevo dentro il vaso da notte. Quella era la sua cuccia. Quando venivo su gli portavo un po’ di pane… stette con me tre mesi. Venne su grossetto, sempre lì dentro il vaso. E qualche volta lo tiravo fuori e lo tenevo in mano, correva su e giù, e oramai eravamo amici fatti. Finché un giorno lo presi, lo misi in tasca per non farmi vedere, poi andai nel cortile e gli detti via libera.

Una volta venne a trovarmi mio padre. Dopo quattro anni. Era vestito da militare. Era andato volontario in Africa, c’era la guerra in Africa. La guardia viene da me.

– Scaranari, c’è tuo padre.-

– Mio padre? –

Allora vado giù in ufficio e c’era davvero mio padre là. Vestito da militare. Ci siamo abbracciati.

– Papà, quand’è che esco di qui? –

– Tornerò a prenderti –

Se non era per la guerra, che servivano i soldati, a quest’ora ero ancora lì.

Ovidio, padre di Mario

 

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