Diario di zona, decima pagina

Quanto cammini? In quante cantine entri? E i gradini, quanti gradini fai ogni giorno?
Non lo so, rispondo. Non li ho mai contati. Cammino molto, questo è sicuro.
Infatti da circa un anno la mattina, appena sveglio, ho un forte dolore al tallone del piede sinistro. Saranno le scarpe antinfortunistiche o è solo stanchezza?
Ogni mattina ci metto qualche minuto a far passare il dolore, con una mano massaggio il tallone, con l’altra accarezzo i miei cani.

Passano i giorni e le zone si succedono, a volte non succede niente di interessante. Oppure le frasi e gli atteggiamenti sono così simili a se stessi che ho poco o niente da scrivere, ma alla fine qualcosa c’è sempre. Anche nella continua recita di non avere le benedette chiavi, o nella paura di avere a che fare con un potenziale ladro – o che so io – c’è sempre qualcosa che, per fortuna, rende interessante stare fra le persone. Per quanto possa essere stressante.

Come nella 582 – quartiere San Salvario -, solo una piccola deviazione dalla routine, in via Menabrea:
risponde al citofono una voce maschile dal quarto piano e sono pronto a ricevere un rifiuto.
Un attimo, mi dice, arrivo subito.
Apre la cantina e dopo aver assistito alla lettura mi fa:
Stavo preparando il pranzo, di solito ogni volta che suonano per venire giù mia moglie sta lì a menarmela e io le dico senti, siamo tutti nel palazzo, questa cosa è da fare, se non ci aiutiamo fra noi è la fine.
La penso come lei, dico io.

Ancora via Menabrea:
In cantina? Non so come si possa aprire la cantina.
Con la chiave.
Eh… non ce l’ho.

Zone 603, 604. Quartiere Centro.

Relativamente vicine a casa, uso la bici o vado a piedi?
Prendo la bici, risparmio tempo.
Una volta raggiunta la via da cui comincio a lavorare posso legare la bicicletta e andare piedi. Cammino fischiettando il motivo di una canzone. Non ci sono molte persone che fischiettano per strada, almeno non a Torino. Chissà perché.
Mi piace guardare le facciate dei palazzi, le decorazioni, le finestre. Guardo le persone per strada: quelle n ritardo, quelle che si attardano davanti alle vetrine, quelle sedute sulle panchine a leggere, quelle sedute sotto i portici in via Po o in via Roma a chiedere l’elemosina, quelle che lavorano, quelle che osservano. Un passo dopo l’altro la città mi scorre accanto, con le sue storie.
Supero un gruppo di adolescenti, ragazze delle superiori, una di loro racconta alle altre:
Io, Simo, l’ho conosciuto sul pullman la mattina andando a scuola. Abbiamo fatto amicizia così, per sbaglio.

In piazza Lagrange c’è un parcheggiatore, credo abusivo. Sta seduto su uno scooter. Mi vede arrivare e sento il suo sguardo che mi analizza come fossi sotto uno scanner. Non vede niente di pericoloso per il suo business e si tranquillizza riportando lo sguardo sullo schermo del minibook, che tiene appoggiato sul manubrio dello scooter.

Faccio la lettura dei contatori anche in alcuni hotel del centro, la solita la routine: mi presento, mi chiedono di attendere un attimo per chiamare il manutentore, che arriva dopo un po’ e mi accompagna in caldaia, facendo due chiacchiere dopo la lettura mi riporta su. Quello che cambia è la modalità dell’attesa. Se non c’è nessuno nella hall e il manutentore di turno è impegnato in altro e l’attesa si allunga dò un’occhiata ai giornali, oppure scambio due parole con chi sta dietro il bancone. Solo in un hotel, quello squadrato a cinque stelle in via Gobetti, la ragazza che sta dietro il bancone mi chiede di aspettare il manutentore sul marciapiede, grazie. È per la divisa, mi dice il manutentore, non fanno passare neppure noi dalla hall, non te la prendere.

Entro in un androne, so già che troverò il custode.
È sulla porta della guardiola, che è tappezzata di poster, foto e sciarpe del Torino, sta parlando con un altro tizio.
Che devi fare? Mi chiede.
La lettura del contatore dell’acqua.
Sempre questi qua, mai che ci mandano una bella ragazza.
Forza Toro, dico andando via.
Sempre!

A ora di pranzo sono nei dintorni di piazza Bodoni, torno dal mio kebabbaro di fiducia. Ha l’aria abbattuta. È da mesi che mi dice che non ci sono clienti, che non c’è giro, che non ci sono soldi. Rincara la dose dicendomi che negli ultimi tempi c’è più razzismo. Lavora fino alle 3:00 del mattino e ogni sera deve stare attento a non mettere le mani addosso a qualcuno. Mi dice che poche sere fa un ragazzino entra nel suo locale, ordina un kebab e poi chiede: Ma tu che ci sei venuto a fare qui?
A me che vivo a Torino da 15 anni, questa è casa mia, mi dice.

Mangio un falafel e riparto.
Prendo la bici e continuo in via Pomba, incontro un signore che sta uscendo in quel momento con la bicicletta. Una bella bici, di qualche anno fa e tenuta molto bene. La mia, al contrario, avrebbe bisogno di una bella messa a punto. Chiedo se può aprire la cantina giusto il tempo di fare la lettura. Acconsente e dopo aver fatto la lettura cominciamo a parlare delle rispettive biciclette.
Mi dice che la usa ormai da vent’anni per percorrere la città:
Arrivare a lavoro era un inferno, un giorno ho detto basta e mi sono comprato una bici. In macchina è una rottura di coglioni.
Concordo, dico io.

In c.so Vittorio al civico 50 incontro al targa dedicata a:
Edoardo De Angeli, partigiano.

Grazie a questo lavoro, da quasi due anni, ho smesso di mangiare carne. La mia dieta è vegetariana non ortodossa, mangio a volte le uova e il pesce. Comunque grazie alle visite fatte nei retrobottega e/o cantine di alcune macellerie la carne macellata, l’odore soprattutto, ha cominciato a darmi la nausea. Da qui a smettere di mangiarla non è corso poi molto.
Pranzando fuori casa, e avendo spesso poco tempo per farlo, la situazione però non è molto gestibile. Spesso mangio solo un pezzo di focaccia e poi riparto, ma il problema è trovare una focaccia o un pezzo di pizza senza strutto nell’impasto. E allora le cose un po’ si complicano. A volte incontro panettieri che si impuntano: non troverà niente da un’altra parte. Oppure: allora si vede che non vuole mangiare.
Bottegai.

In zona c’è una pizzeria napoletana, la saracinesca è a metà, segno che dentro c’è qualcuno. Devo fare la lettura di due contatori: della pizzeria e del condominio. Se riesco a farmi aprire da qualcuno della pizzeria sono a cavallo. Busso e mi apre il pizzaiolo, si sta preparando per l’apertura del pranzo.
Ci mancherebbe, mi dice, un attimo e facciamo tutto.
Apre la cantina.
Fai con comodo, mi dice, ti aspetto qua.
Faccio la lettura e torno su, chiudo la cantina e riporto le chiavi in pizzeria.
Mi offre un caffè e un bicchiere d’acqua.
Visto che ci sono perché non chiedere come prepara la pizza e perché in molti usano lo strutto?
Si lancia in una descrizione del lavoro di panettiere e pizzaiolo, mi spiega:
Io uso acqua, sale, lievito, farina e basta. Molti mettono strutto, olio, latte, così è più buona. Non lo sanno fare l’impasto, non c’è niente da fare. Mettono tutto così il palato sente che è buono, ma la digerisci il giorno dopo, se la digerisci. Neanche il pane sanno fare. A noi c’hanno insegnato la cultura del lavoro. Venivano a prenderci alle quattro del mattino e stavamo in panificio. Per questo so queste cose. I nostri nonni ci hanno insegnato a lavorare, essere puliti e presentabili sul lavoro.
Da noi mangi la pizza ed è buona. Non metto niente, tu che sei vegetariano te ne accorgi, basta rieducare il palato, piano piano è tutto più buono. Nelle altre pizzerie qui, batte il palmo della mano in un angolo del piano di lavoro in marmo, c’è la bottiglia con l’olio e prima di mettere la pizza nel forno aggiungono l’olio. Da me no. Da noi mangi la pizza e dopo un’ora hai fame. Hai digerito.

Cammino, lego la bicicletta a un palo e lavoro su via Mazzini, via Cavour, via San Massimo, Via Accademia.
Un passo dopo l’altro alla fine scopro piccole cose di cui non mi sono accorto l’ultima volta che sono passato da queste strade. Vedo con piacere che il portone al 38 di via Accademia Albertina è chiuso, segno che i lavori non sono iniziati, le ultime due famiglie dello stabile non sono state ancora mandate via. L’azienda che ha comprato lo stabile dal Comune non ha potuto ancora mettere in opera il “progetto mai visto”.
I gatti resistono.

Mi sposto a lavorare in via San Francesco dove vedo per la prima volta la targa a Mario Costa, il Diavolo nero.

Nell’ultimo isolato della via, verso c.so Vittorio, ci sono dei lavori in corso. Una gru è piantata sul lato sinistro della strada.
Da bambino ricordo che per un Natale mi regalarono una gru, gialla. Nel pacco c’erano anche un camion con la betoniera, uno per trasportare rocce e un escavatore. Pensai bene di mettermi all’opera la mattina stessa. Insieme a mio fratello piantammo la gru quasi al lato della capanna con la stella e i camion percorrevano rumorosamente le strade da cui avevamo fatto sloggiare pastori, pecore e Re magi. Sfrattammo anche la famigliola dalla capanna, animale compresi. Ricordo che nostro padre ci lasciò fare, anche se aveva passato un paio di giorni nella costruzione del presepe.
Il gioco lo interrompemmo presto, per noia credo. Riportammo i pastori sulla strada, risistemammo il muschio, rigovernammo le pecore. Ci saltò subito all’occhio che qualcosa era andato perso. L’armonia che reggeva l’insieme del presepe non c’era più. Non ricordo se nostro padre ci aiutò a ripristinare tutto, forse no ma posso sbagliarmi. L’insegnamento comunque emerse anni dopo: ogni intervento su un insieme armonico è tendenzialmente distruttivo e non è vero che tutto torna come prima, dopo aver fatto uno scempio.
Guardo la gru e mi viene in mente l’episodio del presepe trasmutato in cantiere, noto che sul muro della casa che sta sul lato destro del marciapiede, all’altezza della gru, ci sono dei segni bianchi. Come se qualcosa avesse colpito il muro con violenza. Guardo meglio e sì, il marmo è scheggiato fino a un metro d’altezza per almeno dieci metri. Un signore con le borse della spesa mi viene incontro, mi osserva e mi dice:
Alcuni giorni fa un blocco di cemento è caduto dalla gru. Era arrivato fino in cima e s’è rotto.
Cosa s’è rotto, il cavo?
No no, il cemento. S’è rotto da dove passava il cavo ed è caduto sul camion. Meno male che l’autista era sceso per fumare. Il camion era tutto schiacciato e le schegge sono arrivate fino qua, nel muro, guardi.
E s’è fatto male qualcuno?
No, non passava nessuno, un miracolo.
E quando è successo?
Pochi giorni fa.
Non ho letto niente sul giornale.
E lo so, non s’è saputo nulla, quando succede qualcosa in questa via non si sa mai niente.
E va via, resto un po’ basito. Come “non si sa mai niente”?
[Una volta a casa faccio qualche ricerca in rete e trovo un articolo qui anche se le versioni sono discordanti. Nell’articolo scrivono che s’è staccato il contrappeso della gru, a me raccontano del blocco di cemento che stava andando su]

Entro al n° 39, noto la targa del collegio costruttori edili di Torino.
Lì in cantina posso fare la lettura del contatore dell’acqua del condominio e del ristorante che dà sulla via. Il custode mi dice di accomodarmi che la cantina è già aperta, ma ho bisogno della chiave della cantina del ristorante. Dalla porta del retro mi affaccio in cucina e arriva subito un tizio con le chiavi, nel frattempo arriva un condomino diretto in cantina e ci troviamo ad andare giù in tre per due contatori. Faccio la prima lettura nella cantina del ristorante, passo poi nel locale caldaia dove passano le tubazioni del teleriscaldamento. Mentre faccio la lettura chiedo come mai ci siano in giro delle candele. I due si guardano, poi uno dei due mi fa:

Un ragazzo che abitava qua, due anni fa s’è suicidato.
Cazzo, dico io.
Un omone di due metri, fa l’altro, un ragazzo gentilissimo, era straniero, scozzese mi pare.
Sì, fa il primo, lo avevo visto un po’ giù alcuni giorni prima, ma uno non arriva a immaginare una cosa del genere.
Guarda, mi dice, qui c’erano anche alcune lattine di birra e qui è dove ha provato una prima volta.
Indica un tubo su cui ci sono i segni lasciati da una corda ed è leggermente incurvato verso il basso.
In silenzio usciamo dalla caldaia, imbocchiamo le scale, a metà percorso si ferma e indica un tubo di acciaio sopra le nostre teste che attraversa da parte a parte l’area delle scale.
Qui, mi dice, qui c’è riuscito. L’ha trovato uno del terzo piano, stava andando giù in cantina e l’ha visto appeso. Ha lanciato un urlo ed è caduto a terra. È venuto da me e non capivo, poi l’ho visto. Abbiamo provato a tirarlo su, ma era già andato.
Poveretto, dice l’altro.
Poi abbiamo chiamato la polizia, è successo un casino. Nessuno poteva uscire, l’amministratore non voleva venire, ha preso il cellulare un commissario, una donna. Ha preso il telefono e gli ha detto: c’è un morto. La voglio qui, subito. E ha chiuso. Dopo venti minuti l’amministratore era qua, bianco come un lenzuolo. Hanno bloccato tutto. C’era chi doveva andare via, in ospedale magari per una visita e ci sono stati momenti un po’ caldi.
E l’amministratore?
Secondo me, mi dice uno dei due abbassando la voce, aveva paura dello scandalo. Questo è un palazzo importante.
Per gli uffici che ospita?
Già.

Curioso, anche di questo episodio non ho saputo niente. Non che sia stato molto attento ai fatti di cronaca di Torino, ma un episodio del genere non passa inosservato. In centro poi. Poche settimane fa, nel parco della Colletta, un uomo s’è dato fuoco, aveva perso il lavoro. La notizia ha avuto molta risonanza. Sarà un caso o è come mi ha detto il tizio per strada: non si sa mai niente di quello che accade in questa via, in centro a Torino.

Piove, spero sia una delle ultime giornate di pioggia. Mi rifugio in una kebaberia, un’altra da testare. Ordino il mio falafel e mi siedo in fondo alla sala. Alla mia sinistra si sistemano due ragazzi. Avranno circa vent’anni. Parlano dei rispettivi corsi, dei prossimi esami e di ragazze. Questa è così, quella fa cosà. Poi, addentando i loro kebab:
Arriva a lezione, era tipo novembre, con un maglione lungo, niente sotto, né calze né niente. Forse neanche le mutande (pausa per una risata complice) e un paio di stivaletti bianchi di pelle. Da quel momento per noi è diventata “quella senza pantaloni”.
Ridono. Si guardano intorno. Io prendo appunti.
Una così la vedi e dici: questa è una da combattimento (non mi sembra un complimento “una da combattimento”, quanto meno non è carino) e invece è stata solo con F. e questa cosa a me mi ha sconvolto.
Riprendono a parlare dei prossimi esami e di quanto può essere stronzo un professore. Finisco il mio falafel e torno a camminare sotto la pioggia.

Incrocio due muratori per strada, uno dice all’altro:
E non è la stessa cosa, scusa. Cos’è meglio: pagare la luce o pagare il telefono?

La luce! o no? scusa!

Via dei Mille, trovo una cantina già aperta. Vado giù e nella caldaia ci sono due tecnici che stanno lavorando.
Scambiamo un paio di battute, faccio il mio lavoro e vado via.
Dopo 10 minuti uno dei due mi vede per strada davanti a un citofono muto.

Non apre nessuno vero?
No.
Una bella rottura di palle.
Sorride e va via.

Un passo dopo l’altro, da un citofono all’altro. Lavorare in centro comporta diversi vantaggi: oltre a poter lasciare la bicicletta in un posto e muovermi a piedi, le persone hanno un modo di fare molto distaccato e meno aggressivo. Ogni volta che torno a lavorare in questa zona mi fermo a guardare palazzo Gualino su c.so Vittorio un edificio in stile razionalista che fa a pugni con lo stile monumentale degli altri palazzi della zona. Fu un luogo di potere della città durante il boom economico, sia con Gualino che con gli Agnelli, che trasferirono qui i loro uffici negli anni ’50.
C’è ancora la targa che indica il luogo come sede di alcuni uffici comunali (imposte e tasse), ora è tutto chiuso. Mi dicono che verrà riaperto: il vecchio proprietario, il Fondo Immobiliare Città di Torino, ha venduto da poco a una società privata. Altri palazzi di proprietà del Comune sono in vendita e molto probabilmente altre società private si faranno avanti e compreranno a prezzi vantaggiosi. È la crisi o è il sistema?
Ci sono molti cantieri aperti in città, in alcuni devo entrare per lavoro e di solito è il capocantiere ad accompagnarmi. Quando chiedo se hanno già venduto qualche appartamento la risposta è la stessa: pochi.
Su via della Rocca ci sono diverse agenzie immobiliari, dò un’occhiata veloce e la maggior parte sono appartamenti “di pregio”. Il numero di case in vendita a Torino è impressionante.

Recupero la bicicletta che ho lasciato in c.so Cairoli, mi fermo a guardare il monumento a Garibaldi con sentimenti contrastanti.
Monto in bici e, con il Po alla mia destra e il traffico pre-aperitivo alla sinistra, torno a casa pedalando al ritmo di Lukin.