storia di a.

racconto un po’ morboso in 4 fasi

al piccolo malato di alzheimer
che vive in ciascuno di noi

fase a¹ – senza parole
8:15. Sta per passare. Ancora cinque minuti e vedrò spuntare la sua gamba, destra o sinistra, seguita dall’altra, sinistra o destra, il passo deciso a percorrere tutta la lunghezza della mia vetrina, da sinistra a destra, senza fermarsi. Di solito porta un soprabito grigio scuro, col colletto a falde larghe, molto lungo, però non è mai chiuso fino in fondo e lascia quindi affiorare le gambe, destra e sinistra, in tutta la loro meravigliosa bellezza avvolta dagli stivali fascianti di cuoio lucido, marrone. Mani in tasca, curve diverse che sfrecciano dipanandosi verso l’alto e oltre a quelle, più su ancora, il profilo, perfetto e deciso anche lui, nonché accompagnato da una cascata di capelli castani. In tinta con gli stivali.
E quando la giornata vuole preannunciarsi particolarmente fortunata, allora, a volte, succede. E quando il miracolo avviene è come in una moviola da gol, dove il naso parte all’attacco, compie una virata e trascinando con sé la testa e facendo volare la cascata di capelli, segna. È così che lei si volta per specchiarsi furtivamente nella vetrina.
Asciugo i bicchieri e sono le 8:18. Non sono ancora riuscito a capire di che colore siano i suoi occhi, ma confido in questo mio enorme specchio, che faccio lucidare tutti i giorni perché sia pronto a rifletterla, e aspetto ancora. Soltanto ancora due minuti circa di agonia, che d’altra parte saranno ben ricompensati dall’epifania che ormai è diventato ogni suo passaggio, tutti i giorni dal lunedì al venerdì.
Eccola.
La gamba sinistra e poi la destra prima affiorano e poi si rituffano nel soprabito. Seguo le curve – ed è impossibile non soffermarsi a guardare e a pensare – e resto ancora in attesa del verdetto finale, pronto a cogliere ogni minima tensione nella sua narice destra che tradisca lo scatto a specchiarsi.
Ma niente di fatto, a quanto sembra, per oggi.
Poi di colpo un guizzo nuovo e inaspettato. La mano destra scivola fuori dalla tasca che l’ha finora tenuta al riparo dal vento, si allunga in avanti e si lancia in quella che potrei decisamente definire una svolta nella mia vita: afferra la maniglia, apre la porta e il miracolo entra.
– Buongiorno!
– Gnngn…
Coglione. Cominciamo bene. Anche il mio voleva essere un buongiorno, anche se in realtà a questo punto il giorno è meraviglioso. Mi stai anche sorridendo, lo sguardo vagamente interrogativo – e verde, hai gli occhi verdi – mentre io continuo a lucidare lo stesso bicchiere fissandoti ebete. Sei entrata, finalmente, mi stai davanti a circa un metro di distanza, non ci posso credere –
– Scusi…
Mi risveglio dal torpore, mi stai parlando con dei denti bianchissimi, e dici a me, proprio e solo a me. Si potrebbe quasi dire che in questo momento, o meglio dal momento in cui si sarà instaurato anche solo un dialogo essenziale, una conversazione minima tra noi due, allora anch’io sarò diventato parte integrante della tua vita.
– Mhmmgn..?
No, cazzo…
– Potrei avere un’acqua brillante non di frigo, per favore?
– Dubito. No! Subito! …subito.
Calma. Manteniamo la calma. L’acqua è nella bottiglietta e la bottiglietta si trova all’interno del frigo. NO! Non dentro il frigo, lei la vuole a temperatura ambiente e quindi è qui, sotto il bancone. L’acqua è nella bottiglietta e va nel bicchiere. Che peraltro ormai sembra un unico gigantesco diamante a 50 carati, con tutto il tempo che ho passato a lucidarlo.
– Frego, è per sempre.
– Come?
– Prego, è il diamante… brillante… L’acqua, brillante.
Coglione e ancora coglione. Meno male che l’ha presa sul ridere, anche se non so se le fa granché onore, fosse stata una battuta voluta avrebbe fatto veramente pena. Va be’, meglio così. E la fettina di limone però ce la siamo dimenticati, eh…
– Limoni? Limone? Fettina?
– No, grazie, mi serve solo per mandare giù questa.
Ridi, ridi… che sei bella quando ridi. Che se non fossi così bella io magari riuscirei anche a dire tre parole sensate di fila, però tutto sommato preferisco così: io cretino, ma tu in compenso davvero bella.
– Scusi, mi sa dire che ore sono? Ho il cellulare scarico…
Ti prego, dammi il tuo cellulare e io te lo ricaricherò. Non importa il modello, troverò il caricabatteria giusto e tu aspetterai qui fino al compimento di tutte le tacche sul tuo display. E io naturalmente aspetterò insieme a te, guardandoti aspettare. In silenzio, che oggi conviene tagliare corto, con le parole.
– Le 8 e 27. Recise.
– Grazie.
Niente da fare. Oggi va così. Continua pure a ridere, tu… E intanto stai finendo la tua acqua brillante da 50 carati mentre hai definitivamente ingerito qualunque cosa fosse quella che hai mandato giù col primo sorso. Non mi starai mica covando qualcosa, che poi ti tocca startene a letto e non mi passi più di qui…
– Quant’è?
Sorridi, meno male che mi porgi già una banconota, così mi basta darti il resto senza aprire bocca.
– Grazie, arrivederci.
– ‘vederci…
Si, figurati. Chi ti vede più dopo questa brillante conversazione. Ti sei già voltata – i capelli a seguire quasi colpendomi con un meritatissimo schiaffo – riprendi la porta e prosegui lungo la vetrina, per poi specchiarti un’ultimissima volta sul margine destro, sparendo con un sorriso.

fase a² – segnale assente
Le 8:20 e puntuale come sempre già mi appresto a tirar fuori da sotto il bancone la bottiglietta di acqua brillante, a cui ultimamente tiene perfino compagnia una fettina di limone. E nel dire ‘ultimamente’ non posso fare a meno di notare che l’espressione già di per sé sottolinea una relativa estensione della dimensione temporale, estensione che è la sola in grado di permettere una tale osservazione. Ossia: se dico ultimamente, intendo dire negli ultimi tempi rispetto all’’ormai lunghissimo tempo totale in cui ho potuto osservare il dato fenomeno. E che fenomeno. Che fenomeno di donna. E che tempo totale. Sono tre settimane che ti mandi giù le tue pillole mentre io mi bevo i tuoi sorrisi nel mio locale. Ogni tanto, devo dire, sono impensierito dal tuo stato di salute, preoccupato da questa cura a lungo termine che scandisce le tue giornate. Poi, però, dal momento che scandisce anche le mie, passo subito a vedere l’aspetto positivo della faccenda. E se devo essere sincero, qualche volta mi spingo perfino in un ‘grazziaddio che non stai troppo bene’, così ti vedo tutti i giorni, per lo meno dal lunedì al venerdì, e ti vedo così da vicino. Visto che non soltanto la dimensione temporale, ma anche quella spaziale, quella del tuo passaggio lungo la mia vetrina, si è ormai considerevolmente ampliata nonché consolidata in questa tua parentesi in cui ti tuffi ogni giorno qui dentro e dentro questo tuo bicchiere in cui galleggia la tua pillola-salvagente.
Che sempre ultimamente, poi, alla fine ho riacquistato almeno in parte l’uso della parola. Giusto quel minimo indispensabile per permettermi di svolgere dignitosamente il mio mestiere, soprattutto nel caso in cui si presentino altri avventori che non siano propensi, come te, a intenerirsi e cogliere e godere del lato comico della situazione, ma che davanti a un barista balbuziente perdono la pazienza e magari non ci tornano nemmeno più, nel locale.
Eccoti.
Tu, i tuoi capelli lunghi, i tuoi denti bellissimi, il tuo soprabito che si apre sulla tua eleganza particolarmente raffinata, questa mattina, ma soprattutto, a quanto vedo, la meraviglia estatica di un bottone sbottonato in più. Te lo farei notare ma sarebbe veramente autolesionismo puro, quindi no.
– Il solito?
– Si, grazie.
Mi sembra quasi di leggere l’agenda dei tuoi appuntamenti, giorno dopo giorno, attraverso la cura diversa che metti nel vestire, lo stile, i colori che scegli. La prima settimana hai spesso optato per uno stile un po’ troppo fricchettone, per i miei gusti, poi ultimamente la clientela, per mia fortuna, deve essere salita di livello. Ma mica così di colpo. Un po’ quasi per tentativi, direi. Finché pian piano ti sei data sempre più rigorosamente al sobrio, all’elegante, al nero. E che non sai quanto mi piaccia, il nero. Bella panterona mia.
– Senti, secondo te quanto ci metterò di qui fino in piazza Cavour?
Ormai sono diventato una persona di fiducia, un consigliere.
– Beh, almeno un quarto d’ora non te lo toglie nessuno. Poi il parcheggio…
– Oddio, ma allora sono già in ritardo, mi devo muovere, l’appuntamento è tra dieci minuti. Aspetta che non trovo la moneta…
– Lascia, lascia, aggiustiamo la prossima volta. Piuttosto cerca di non dimenticarti di nuovo la cartellina, se no poi devi correre indietro.
Ultimamente dev’essere un po’ nervosa, è sbadata. Sono già tre volte che si dimentica qui qualcosa. Per me in realtà va benissimo, visto che torna poi a prenderselo e io la vedo due volte nell’arco della stessa giornata, però un po’ mi dà da pensare. E se questa sua disattenzione fosse proprio un sintomo della sua malattia, che ne so, magari una specie di amnesia a breve scadenza, come si dice quando uno ha la memoria corta ma solo per le cose successe poco prima… Poverina, però.
– No, no, non me la scordo, tranquillo. Piuttosto facciamo una cosa, per il futuro: ti scrivo qui… il mio… numero… ecco.
Forse non ho sentito bene. Il suo numero? A me?
– Ma non stare adesso… fai tardi, no?
– No, no. Così dovessi perdermi un pezzo qui in giro, sappiamo come fare. Ok?
Ah, ecco. Mi pareva. Perché si fida di me, mi da il numero. Eh, già. E così è praticamente automaticamente esclusa ogni altra possibilità di utilizzo. Altrimenti addio fiducia e chi s’è visto s’è visto…
– Ok, grazie. Ma, scusa, non ti conveniva andare direttamente a quell’appuntamento stamattina?
– Si, forse si. Ciao, a domani.
Ciao, ciao. Si, a domani. Che poi un giorno o l’altro me lo dirai a cosa ti servono quelle benedette pillole. Non sono ancora riuscito né a capire cosa possano essere, né tanto meno a leggere cosa sta scritto sulla scatola. Sempre veloce, zac – zac, te la spara fuori dal blister in due secondi e poi via, di nuovo nella borsetta. Magari si vergogna, per quello è così veloce. Che siano psicofarmaci? Fa un po’ vedere… no, la grafia sul biglietto è quella di una mano ferma, sicura di sé. E sicura del fatto che di questo numero non sarà fatto uso inopportuno. Ma che idiota, ma si può? Che l’avesse perso per strada, questo biglietto, e io fossi un passante qualunque, allora sì che l’avrei potuta chiamare e molestare tranquillamente. Invece no. Il consigliere, il barista di fiducia… Mi sono fregato con le mie mani.

fase a³ – fuori servizio
L’orologio sul comodino segna le 00:18. Le lenzuola sono beige, o ecrù o come cavolo si chiama questo colore. Comunque di lino, e ricoprono un piumino caldo ma leggero. Cuscini morbidi. Niente lampadari, ma un’abat-jour – spenta – e una lampada a stelo che diffonde la luce in maniera soffusa. Alle mie spalle, sopra la mia testa, un quadro. Non me ne intendo assolutamente, ma è sicuramente un quadro vero, voglio dire non una stampa qualunque. E non ho idea di cosa si presume che rappresenti, ma comunque lo rappresenta in tinta col mobilio. Prendo nota di ogni cosa, di ogni particolare utile a confermare la mia reale presenza qui.
Non ci posso ancora credere.
Si è inventata tutto. Tutto fatto apposta. Le pillole: banali compresse vitaminiche. La presunta malattia: una scusa per passare dieci minuti con me ogni mattina. Gli oggetti dimenticati: un’altra scusa per passarne altri dieci. E questo significa: era davvero la mia vetrina ad essere trasparente, e non io. Era me che osservava, e non il proprio riflesso. E il numero di telefono: lei su un piatto d’argento. Peccato che fossi talmente lontano dall’idea che lei potesse essere anche minimamente interessata a me, che alla fine c’è voluta tutta la sua esasperazione per portami fin qui.
Ed eccomici. Nel suo letto. Lei è andata in bagno a non so bene cosa fare e neanch’io so bene cosa fare, più che altro nel senso che non ho ancora deciso se ‘si conviene’ che mi spogli completamente prima che lei arrivi o se non sia meglio lasciare a lei l’onore e il piacere. Va be’, la maglietta intanto me la levo che la canottiera della salute non fa molto vero uomo. Si è spenta la luce –
– Ciao…
– Ciao.
Si è infilata sotto le lenzuola e io nell’indecisione alla fine non mi sono comunque ancora spogliato del tutto e lei invece sì che l’ha fatto e sento la sua pelle contro la mia i seni le labbra che mi cercano al buio morbidissime e allora ti tocco e ti accarezzo la schiena giù fino alle natiche e poi su davanti fino al seno mentre tu mi tieni la testa fra le mani e continui a baciarmi e spingi il bacino contro il mio e sì toccami anche tu e una sua mano pian piano scende lungo il collo e mi accarezza il petto e poi la vita e poi s’inceppa nelle mutande ma poi si fa strada e scende ancora e si infila e niente porca miseria adesso non facciamo scherzi non mi funziona cazzo aspetta aspetta le levo la mano e continuo a baciarla e le bacio il seno e intanto baciandola scendo coi baci anche con le mani perché mi tocco io questa volta che è meglio che con me c’è abituato e funziona sicuramente più in fretta e penso a quant’è bella lei e a quanto l’ho desiderata tutte le volte che la vedevo entrare nel locale e me la immaginavo nuda e adesso ce l’ho qui nuda appiccicata a me che mi vuole e anch’io la voglio e però cazzo continua a non funzionare e lei fa finta di niente e mi pare che comunque le piaccia quello che le sto facendo però così non va cazzo e forse c’è bisogno di qualcosa di più forte e forse se ora mi infilo tra le sue cosce e lui si trova al posto giusto diventa anche il momento giusto e allora tutto sarà normale e bellissimo e allora risalgo su e continuo a tenerlo e le allargo le gambe e mi ci infilo e sfrego e vado su e giù e mi strofino e lo strofino e spingo e cerco di spingerlo dentro e di incastrarlo dentro e lei adesso è ferma e aspetta e io continuo a spingere e a spingere e a spingere e a spingere ma cazzo cazzo nooooooooooo!

fase a4 – memoria piena
8:15 di venerdì. Sta per passare. Ancora cinque minuti e vedrò spuntare la sua gamba, destra o sinistra, seguita dall’altra, sinistra o destra, il passo deciso a percorrere tutta la larghezza della mia vetrina, da sinistra a destra, senza fermarsi. Il soprabito grigio scuro, col colletto a falde larghe, molto lungo, mai chiuso fino in fondo e che lascia affiorare le gambe, destra e sinistra, in tutta la loro meravigliosa bellezza avvolta dagli stivali fascianti di cuoio lucido, marrone, perfettamente in tinta con la sua cascata di capelli castani.
Asciugo i bicchieri e sono le 8:18. Non sono ancora riuscito a capire di che colore siano i suoi occhi – anche se chissà perché me li immagino verdi – ma continuo a confidare in questo enorme specchio che è la mia vetrina, che prima o poi facendola voltare me li mostrerà.
Eccola.
La gamba sinistra e poi quella destra che prima affiorano e poi si rituffano nel cappotto. Seguo le curve e resto in attesa del verdetto finale, pronto a cogliere ogni minima tensione che tradisca lo scatto a specchiarsi – ma lei prosegue decisa, più veloce del solito.
Niente di fatto, per oggi. La prossima settimana, forse, sarà la volta buona.

 

[Questo racconto risale al 2008 ed è stato scritto in occasione di uno spettacolo sull’Alzheimer, E tu chi sei?, andato in scena al CineTeatro Baretti di Torino, dove all’epoca mi occupavo della redazione dei programmi di sala. Le quattro “fasi un po’ morbose” sono infatti le stesse quattro «A» che caratterizzano il morbo di Alzheimer: amnesia (perdita di memoria), afasia (incapacità di comprendere e/o formulare messaggi verbali), agnosia (incapacità di identificare correttamente gli stimoli, riconoscere persone, cose e luoghi), aprassia (incapacità di compiere correttamente movimenti volontari).]

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