Il sacro della Primavera – Compagnia Balletto civile.

Ci sono spettacoli che riescono a instillare un congegno a tempo nell’immaginazione degli spettatori e, a distanza di giorni, quel senso “ottuso” (come lo definì Roland Barthes) che è li nascosto, a volte anche all’insaputa dell’autore, esplode all’improvviso.

“Un lavoro che non m’ha convinto.” Questo è il pensiero che si è fissato nella mia mente alla fine dello spettacolo visto alle fonderie Limone a Moncalieri, nella rassegna “Parole d’artista” del Teatro di Dioniso.
“Non m’ha convinto.”
Ma perché? E uno spettacolo, alla fine, *deve* convincere?
Non lo so, onestamente.
Il sacro della Primavera di Balletto civile è una rivisitazione di Le sacre du printemps di Igor Stravinskij. Le musiche del maestro russo risuonano lungo tutto lo spettacolo, mixate con pezzi dei Radiohead, con un reiteratissimo fuck off e con vari brani di musica pop che non ho meglio identificato.
Fa niente, fuck off.

La scena ha al centro un totem fatto di casse audio, sul proscenio a sinistra c’è una postazione con un computer portatile, un mixer e un amplificatore. Se non ricordo male.

Un attore entra in scena dal fondo della quinta di destra, ha lunghe orecchie d’asino in testa fissate con uno scotch nero (da attrezzisti, penso), delle cuffie posizionate sulle (sue) orecchie, una lattina di Red Bull in una mano e un pezzo di focaccia nell’altra. Attraversa la scena in diagonale verso sinistra e si piazza a destra del totem. Lo guarda, mangia un boccone, beve un sorso e continua a guardare in silenzio. Poi riprende il cammino lungo la diagonale e si ferma davanti a un microfono posizionato sul proscenio, guarda il pubblico e introduce lo spettacolo: i ballerini, non tutti sono ballerini – cioè quasi, va be’-, danzeranno – o quasi- e lui metterà le musiche – sì, musiche, più o meno – non proprio musiche. Ha un ‘manuale dell’attore’ in tasca.

L’attore/dj si posiziona dietro il computer e dà il via alla musica.
Entra in scena una ballerina, porta con sé un estintore, ha addosso una felpa con cappuccio.

La musica va e la danza segue, energica e bellissima. Focalizzo l’attenzione sull’estintore che mi riporta al luglio del 2001 e a un ragazzo ucciso in piazza Alimonda. Mi riporta immediatamente al pensiero di una generazione (che in molti vogliono) spezzata, così come hanno spezzato la vita di Carlo Giuliani.
Ma questa, mi dico, è una mia associazione.

Fuck off.

Il balletto prosegue, ci sono assoli e coreografie di gruppo, ci sono scene più “teatrali” (c’è anche qualche dialogo) e la differenza di qualità di movimento fra i performer è evidente. Ed è una qualità di questa riscrittura de Il sacro della Primavera. Uno dei suoi punti di forza. Ciò che c’è di sacro nel balletto classico qui non ha cittadinanza, mi pare che questo venga detto in modo chiaro. In modo grottesco. I “difetti” – di tutt*- sono tutti lì. I corpi si prendono lo spazio che a loro spetta e lo fanno fregandosene dei codici imposti dalla “danza”. Vanno oltre i pesi, le altezze, la dimensione del seno e la misura del giro vita, oltre la perfezione dei muscoli e la ridicolaggine del lardo.

Ma cos’è che non mi convince?, mi chiedo, cos’è che non decolla?

Il missaggio della musica è in alcuni punti forzato, barbaro, così come trovo grottesco il susseguirsi dei quadri scenici. C’è qualcosa di violento, ho come l’impressione che mi si stia dicendo “sì, non siamo bravi come vorreste che lo fossero dei ballerini, non lo siamo e non ce ne fotte niente”. Mentre le coreografie si ripetono corali e potenti, i quadri scenici sfiorano il sublime e il dilettantesco d’oratorio. Ma nessuno va via, nessuno lascia la sala.
Ma perché la musica non arriva mai dal totem di casse posto al centro della scena? Perché è muto?

Fuck off, appunto.

E l’estintore?, mi chiedo, perché non torna?

In scena arriva la piantana dell’estintore, tornerà poi in diversi quadri e verrà usata in modi diversi, ma l’estintore no. Quello non tornerà più ed è forse questo che “non mi convince”. Guardo lo spettacolo e mi rendo un po’ conto dell’assurdità della mia posizione di spettatore, di “addetto ai lavori” che pretende qualcosa. E intanto i corpi sudano, la musica cede sempre più spazio a un fuck off a volte ossessivo, e l’inutilità (apparente) dei gesti (degli abbracci, delle corse, dei lanci, delle entrate in scena e delle uscite) nel loro ripetersi stanco diventa una risposta. Una delle tante che una generazione che non si arrende all’immobilità (immobilità a cui pare sia stata condannata da un colpo di pistola esploso da un ragazzino stupido quanto basta per sparare a un altro ragazzo – ammesso che sia stato davvero lui a sparare), caparbiamente dà alla società che la vuole “condannata al ristagno”.

A questa condanna la compagnia Balletto civile oppone il proprio rituale, sacro a ogni primavera. E se a qualcuno “non convince”, beh, fuck off.

[ph di Valeria Tomasulo]

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