Appunti su “Dopo la battaglia” di Pippo Delbono

Lo spettacolo ha inizio con un tableaux vivant: tutti gli attori e le attrici sono in scena, alcuni seduti, altri in piedi, tutti in posa, e si sente la voce del regista che racconta come, grazie ai tagli al FUS, dal progetto di produzione dell’Opera Dopo la battaglia, scomparsi i cantanti, scomparsa l’orchestra, scomparse le scene e i costumi, ecco che si lavora e si produce Dopo la battaglia per Teatro di Prosa.

Si sente da anni ormai il lamento di noi teatranti rispetto ai tagli al FUS, rispetto alla becera politica della destra nazionalpopolare condotta nei confronti di tutto ciò che abbia a che fare con la cultura.

Ci siamo indignati fino a pochi mesi fa, poi è arrivato il reintegro di una parte miserevole dei soldi grazie al solito aumento del costo della benzina, e gli animi si sono calmati quando invece si dovrebbe entrare nel vivo della battaglia (non solo) culturale.

Credo che tener presente questo aspetto della realtà sia un buon modo per guardare non solo questo spettacolo, ma tutti gli spettacoli teatrali prodotti oggi in Italia, e chiedersi se e in che modo si sta cercando di dare una risposta al delirio nazionale. Certo è un modo fra i tanti (e tutti legittimi) per analizzare e tentare di capire.

Fra le cose che più mi son rimaste impresse di Dopo la battaglia c’è un momento in cui Delbono racconta un aneddoto che ha come protagonista Pina Bausch: microfono in mano, in piedi dalla platea guardando la scena (“spazio-mente crocevia dell’immaginario” secondo il foglio di sala), dove in quel momento stanno due danzatrici. Delbono racconta che un giorno Pina Bausch viene invitata da alcuni zingari a partecipare a una festa, la invitano a danzare e lei è molto agitata, pensa di non essere in grado di ballare, e una zingara si avvicina e le dice “Balla, Pina, balla, perché se non balli siamo perduti!”. Il volume sale, il ritmo della danza cresce e Pippo Delbono urla al microfono: “Vai Marigia, vai, danza! Danza! Danza o siamo perduti!”. E quel momento vale lo spettacolo intero, l’emozione arriva e preme sullo stomaco e fa ‘sentire’ cosa può accadere a teatro nel momento in cui si va oltre la mera rappresentazione. In quel “Danza o siamo perduti” sta il centro del problema teatrale e culturale italiano. Ognuno di noi è coinvolto, ma ciascuno dovrebbe lottare non per salvare il proprio orticello bagnato da chissà quale rigagnolo del FUS, ma piuttosto, come scrive Wu Ming, per “salvarsi il culo il più collettivamente possibile”, altrimenti sì che siamo divisi e perduti.

Penso che la sfida sia quella di utilizzare il teatro per uscire dal discorso teatrale e incontrare altre realtà, altre lotte, e riuscire a compiere una “rivoluzione dello sguardo”, quella invocata proprio da Delbono durante la conferenza stampa del prossimo Festival delle Colline, e uscire dalla autoreferenzialità.

Parto da questa constatazione: il teatro di Pippo Delbono si compone di immagini, di attori e attrici, di testi così eterogeneì e poco ‘spettacolari’ da creare e far sgorgare una potenza teatrale che è sempre più difficile incontrare. In questo spettacolo la danza, con i corpi e la musica bellissima e struggente di Alexander Balanescu, è la protagonista; i testi di Artaud, Kafka, Merini, Pasolini, sono usati in modo evocativo, come in un “rito laico e sacrale” (dal foglio di sala), e arrivano improvvisi e dirompenti, mischiati a racconti e aneddoti aventi come protagonista, a volte, la mamma di Delbono, che chiede al figlio spettacoli meno duri e con più “valori cristiani”.

Lo spettacolo procede per quadri drammaturgici, un viaggio non lineare in cui si fa esperienza dell’incontro con la verità della follia, della prigionia, (soprattutto grazie a Bobò e al suo semplice e sublime stare in scena), con il niente della chiacchiera politica sulla cultura, con alcune grottesche figure che evocano le miserie e i vizi del quotidiano nell’italia del 150°. E ci si sente chiamati in causa, si sente la responsabilità di ciò che verrà dopo.

Perciò mi sono chiesto: cosa succede dopo la battaglia?

Dopo ogni battaglia, nel momento della pace momentanea che segue, credo sia necessario riflettere e valutare i risultati ottenuti, la vittoria o la sconfitta, e prepararsi alla prossima battaglia consapevoli della guerra in corso. Consapevoli della guerra in corso.

Ho come l’impressione che ci sia bisogno di portare la saggezza teatrale ‘in strada’ (senza per questo fare teatro di strada), lasciarsi contaminare e, nello scambio, arricchire e arricchirsi, altrimenti l’artrosi che sembra aver colonizzato il teatro contemporaneo (così dipendente da fondi statali e da istituti di credito) diverrà paralisi, con buona pace e sollievo degli sponsor, pronti a mostrarsi con i propri loghi sui cartelloni di (quasi morte) stagioni teatrali.

Chiudo con una citazione dall’abbecedario di Gilles Deleuze. Alla ‘C’ di cultura dice:

“Non vado a teatro, perché il teatro è troppo lungo, troppo disciplinato, troppo stancante. Non mi pare neanche un’arte tanto… salvo qualche rara eccezione, salvo Bob Wilson e Carmelo Bene. Non credo che il teatro sia molto in presa sul nostro tempo, a parte questi casi estremi. Ma restare seduto quattro ore su una poltrona scomoda… […] Ma in una mostra o al cinema ho sempre l’impressione che almeno rischio di incontrare un’idea.”

Ecco è questo, per quanto possa valere, il senso della riflessione: mi chiedo cosa mi colpisca degli spettacoli di Delbono, anche quando il kitsch è presente ed evidente, e rispondo dicendo che si ha la possibilità di incontrare un’idea di teatro non consolatoria, che cerca di far presa sul tempo e scardinarlo.

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