Treno Cavallo e Tram – II / Cairo Montenotte. 180.

Poi mi ricordo un pomeriggio, no, la mattina, mio padre voleva andare volontario in Africa, avevo 13 anni allora. Stavo mangiando e arrivano due individui in casa.
– Scaranari? –
– Sì -, fa mio padre, e con la testa fa segno a me.
Uno di qua, uno di là sotto braccetto: mi portarono via. Io mi misi a piangere.
– Papà, papà, papà… –
– Vai.-, mi disse mio padre. Un papà magnifico avevo. E mi portarono al Ferrante Aporti.
Sono stato venticinque giorni al Ferrante Aporti, quasi un mese. E piangevo. Allora mi ricordo, venne il direttore e mi mandò sotto, a lavorare i giardini, a tenerli puliti, per non sentirmi piangere. Mi ricordo la guardia, il direttore, mi volevano bene e mi mandavano lì.

Poi dopo un mese vennero di nuovo, quei due agenti a prendermi, e mi portarono a Cairo Montenotte, in provincia di Savona. Sono rimasto là cinque anni – era come il Ferrante Aporti, un carcere minorile. Ero entrato a giugno del‘36 e avevo tredici anni, il giorno che Mussolini dichiarò guerra all’Inghilterra, alla Francia… ne compivo diciotto. Quel giorno lì mi mandò a chiamare il direttore e mi disse: Tu vai a casa, il Duce ha bisogno di te, – allora era così – e tu devi servire il Duce.

Al Cairo Montenotte alla mattina ti alzavi, andavi al refettorio a mangiare e poi andavi a fare il tuo mestiere. Ognuno poteva scegliere il mestiere che voleva imparare: o il falegname, o il meccanico, o il calzolaio. Erano i tre mestieri.
– Tu cosa vuoi fare? –
– Il falegname. –
Il mio mestiere quindi era segare legna dalla mattina alla sera per quelli che venivano a comperarla lì. Quello era fare il falegname: segare. Il calzolaio: ti davano delle scarpe, quelle che si rompevano, e bisognava aggiustarle. Se poi non te le aggiustavano le mettevi ugualmente addosso. Il meccanico: ti davano una piastra di ferro, il maestro segnava un rotondo, un esagono, un quadro, poi ti dava una lima e tu dovevi limare almeno per una settimana a togliere via tutto intorno… Non serviva a niente, stavi lì tutto il giorno, era tanto per ingannare il tempo.

Alla mattina lì con il tuo mestiere e il pomeriggio a scuola: io ragazzo intelligente che avevo fatto tre volte la terza, lì l’ho fatta di nuovo. Alla fine però ho fatto poi la quarta e la quinta. E quando ho finito la quinta era già ora di andare a casa: io avevo fatto le scuole alte! La quinta elementare!…E con la quinta elementare ti prendevano da tutte le parti.

E tante volte il mattino non s’andava a lavorare e s’andava a giocare al pallone. Dentro il cortile. Si facevano gli incontri Alta Italia – Bassa Italia. Tanto lì a diciott’anni ti mandavano a casa e più o meno eravamo tutti sui sedici, diciassette anni. Dei begli incontri, eh, e tutta la folla fuori – eravamo tutti noi a guardare – e c’era chi faceva il tifo per l’Alta Italia e chi per la Bassa Italia. Io facevo il portiere, poi ho visto che da portiere eran più quelle che prendevo che quelle che davo, allora ho cambiato, ho fatto il mediano e poi il centravanti, io. Ma un centravanti… non segnavo mai niente. Cosa volevi segnare lì, che se prendevi il pallone ti volavano addosso in sette otto. Lì non c’era l’arbitro a decidere. Povero io e povero a chi capitava. E poi ci si prendeva in giro: Voi della Bassa Italia non valente niente. E quelli della Bassa Italia: Voi dell’Alta Italia non valete niente. Eh, chi perdeva lo si prendeva in giro. Tante mattine a giocare il pallone.

Eravamo tutti amici. Di quelli che erano lì dentro non ho più avuto la fortuna di incontrarne uno. Mai, mai avuta questa fortuna. Mio amico intimo era un calabrese. Si chiamava Paternoster. Io quando lo chiamavo:
– Ti’, ‘Noster…-
– Cosa vuoi, Mario? –
Io almeno Mario mi chiamavo. “Paternoster”. “Cosimo”. Eh, Cosimo… che nome. Invece: “‘Noster!”, rispondeva subito.

Pensare che dentro eravamo in 600 in quel collegio. A pian terreno c’era uno stanzone grosso e lì mettevano tutti quelli più piccoli, del primo anno. Poi ogni anno salivi di un piano. Ogni stanzone era diviso in trentadue celle. Io avevo il mio numero di cella e lo stesso numero anche sulla schiena: il 180. E la mia cella era la trentaduesima, nella stessa posizione in tutti i piani.

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